CONVERSANDO CON GLI AUTORI #2: Intervista a Giuseppe Munforte


Ultimo romanzo dello scrittore milanese Giuseppe Munforte, Nella casa di vetro (Gaffi editore, pagg. 198, 14.90 euro) è un testo di rara bellezza, frutto di anni di revisione. 
Lo sguardo di un padre, Davide, lontano ma presente, guida il lettore alla scoperta di quel fragile microcosmo che è la sua famiglia. La moglie Elena, Sara, frutto di una precedente relazione e, infine, il piccolo Andreas: un nido da proteggere dallo squallore del mondo esterno. 

L'amore incondizionato per i propri cari permea ogni parola del narratore, ogni singolo gesto. Un amore reso visibile grazie alla sensibilità dello scrittore che trasforma il romanzo in una delicata poesia.   

Nella casa di vetro è una storia sulla paternità, sulla famiglia.
Un racconto intimo ma, al tempo stesso, profondamente universale.

Esiste la casa di vetro? Nel descriverla ha pensato ad una casa in particolare o ha esemplificato tratti e caratteristiche di diversi luoghi in cui ha vissuto?

Non ho mai scritto di luoghi, di persone, di ambienti che non conoscessi, quanto meno per averli sfiorati. Per quel palazzo di cui si parla nel libro, ho pensato a una casa dove ho vissuto per diversi anni. Un luogo molto simile a quello del racconto, a ridosso della provinciale per Milano, con le stesse caratteristiche descritte nel libro. Però la materia poi nella narrazione si trasforma tanto che credo nessun lettore riconoscerebbe quella casa, vedendola davvero.



Ha iniziato la stesura del libro alla fine del 2000. Com'è nato il romanzo e, soprattutto, come si è evoluto nel corso degli anni? Come è cambiato?


La prima versione, come ho detto nella nota, è nata in un tempo relativamente breve. Poi, con gli anni, da un lato ho rivisto i "quadri" che compongono la narrazione in prima persona, cercando anche di trovare la giusta sequenza, per lo sviluppo della vicenda e dell'evento che la guida. Parallelamente ho scritto le parti in corsivo, in terza persona, per delineare verso il futuro la storia, e la personalità, dei vari protagonisti.


Il libro, come tutti i romanzi che ho scritto, è nato senza avere all'origine un'idea precisa, senza un progetto definito.
 
 
Nella casa di vetro affronta la tematica del nido, della famiglia. In una società frenetica e divisa come la nostra, crede che questo tema, così ampiamente affrontato in letteratura, possa acquisire una valenza, un significato nuovo, particolare?
 
Prima ancora che della famiglia, credo che il romanzo parli dell'amore, e della paternità, ossia di quelle esperienze nelle quali in modo più evidente si rompe – in una direzione ricca, piena di suggestioni – la distanza dal mondo, l'estraneità che spesso caratterizza la nostra esistenza. Questo avviene, come dici tu, anche per contrasto a quello che circonda le nostre relazioni più intime: una condizione ambientale e sociale spesso tremenda, spietata.
 
 

Lo stile narrativo è evocativo e poetico: le parole sembrano scelte con cura, soppesate una ad una. Perché ha utilizzato un linguaggio di questo tipo? Questa scelta linguistica vuole essere un riflesso della delicatezza del tema affrontato, quello degli affetti?
 
Anche lo stile non è stato scelto a priori, è venuto "naturalmente" dalla posizione del narratore nei confronti di quello che descrive. È come se volesse toccare con le parole. Una posizione di massima prossimità e, allo stesso tempo, di irrimediabile distanza. La sua è una voce che nasce, in un certo senso, da una condizione di contemplazione, nel senso più profondo che possiamo dare a questa parola.
 

In molti hanno definito Nella casa di vetro una favola moderna, metropolitana. Crede che sia la definizione più corretta per esemplificare il suo romanzo? O che in qualche modo lo sminuisca?
 
Non credo che questa definizione sminuisca il romanzo. Le fiabe in genere ci dicono quello che sentiamo essere vero ma che non ha riscontri nella realtà. È fiabesco, se vuoi, il filo che collega tutte le cose che vengono raccontate e descritte, il modo in cui il narratore le percepisce. Il suo lieto fine è distribuito ovunque, non si trova al termine del racconto.
 

Foto dello scrittore Giuseppe Munforte
 
Il lavoro è visto negativamente, come un qualcosa che non dà soddisfazione personale, che, semplicemente, toglie tempo alla famiglia, più in generale agli affetti. Perché ha voluto sottolineare così aspramente questa dicotomia?
 
Il lavoro per i protagonisti del libro è il correlato sociale di quello che li circonda fisicamente. La loro vita cresce e trova senso come certe piante, per usare un'immagine abusata, vivono incuneandosi e aprendo varchi tra le pietre.
 

Il rapporto tra Davide e la moglie Elena è molto particolare.
Quest'ultimo accetta anche Sara, la bambina che Elena porta in grembo, non sua. È con lei che Davide condivide i momenti più dolci e con la quale, in un punto particolare della narrazione, si mette in contatto.
Ho notato un legame fortissimo, paradossalmente più intenso di quello con Andreas, figlio naturale. È solo una sensazione personale? O ha voluto sottolineare che i legami più forti possono andare oltre alla parentela genetica?
 
Sì, ho voluto sottolineare quanto l'amore, che è una forma positiva di sradicamento, di liberazione verso possibilità e potenzialità che altrimenti restano sopite, inespresse, sia legato a fattori incontrollabili e diversi da quelli del dato materiale, come ad esempio il legame genetico, che è illusorio proprio in quanto semplice causalità materiale, insufficiente a generare un'esperienza così grande come la paternità.
 


Il romanzo è stato candidato ad uno dei premi più importante nel panorama letterario italiano, il Premio Strega. Come ha vissuto questa esperienza?
 
Con stupore. Non mi sarei mai aspettato potesse accadere. È stato un successo essere entrato nel gruppo dei finalisti, viste le premesse. Per quanto mi riguarda, tutto si sarebbe potuto fermare alle schede di presentazione, di Arnaldo Colasanti e Massimo Raffaeli, bellissime, e nate semplicemente dalla lettura del libro. Un successo anche i tredici voti della selezione per la cinquina, perché assolutamente non dovuti, non previsti, nati da una scelta libera dopo la lettura. In definitiva lo Strega è stata una bella avventura, anche umanamente, per come l'ho vissuta insieme agli amici della casa editrice.
 


Intervista di Francesca Marson


6 commenti:

  1. Bellissima intervista e da quello che traspare, visto che non ho letto ancora il libro, tratta una tematica attualissima, racconta di un padre lontano dagli esempi della società attuale. Comunque sono veramente contenta che tu sia riuscita ad intervistare questo autore che ti aveva così colpita!

    Anna

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie Anna! :)
      È stata una grande soddisfazione poter intervistare lo scrittore!
      Il romanzo è davvero meraviglioso, prosa che si trasforma in poesia. Merita molto.

      Elimina
  2. Ho apprezzato già Munforte nel romanzo "La prima regola di Clay". Questa bella intervista mi fa venire voglia di leggere altro di questo autore.
    Rosalia

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie del commento Rosalia!
      Il romanzo merita molto.
      Come ho scritto nell'intervista, è davvero un testo di rara bellezza...

      Elimina
  3. Concordo con quanto detto sopra da Anna.
    Dalla tua intervista traspare la bellezza dell'opera, la quale, peraltro, tratta una tematica tutt'altro che semplice rispetto alla realtà sociale attuale.
    Bellissima la risposta alla tua domanda sull'intensità dei legami affettivi.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie del commento :)
      Il romanzo è stupendo, delicato e poetico: non mi stancherò mai di consigliarlo...

      Elimina