Pagine che racchiudono il lungo addio di un figlio, Mattia, verso la madre malata - scandite in un prima, un durante e un dopo - colme di verità e rispetto, che rifuggono quei meccanismi di facile retorica in cui, spesso, si cade affrontando temi così complessi e intimi.
È stata definita, quest’opera
prima, una corsa contro il tempo di un figlio che lotta contro il cancro della
madre per cercare di assaporare pienamente ogni istante rimasto. Corsa che
presuppone, al tempo stesso, un brusco arresto, un cambio di direzione di Mattia,
ventiseienne dipinto come apatico, insicuro, fragile.
Un protagonista, verso il
quale Peano non mostra il minimo accenno di pietas,
che decide di fermarsi - di premere il tasto stop del film che chiamiamo Vita -
per restare accanto alla madre. Ma lasciare in sospeso sogni, aspirazioni,
affetti e decidere di prendersi cura attivamente
di una qualsiasi persona amata che sta morendo è, di per sé, un atto di
grande coraggio.
E nel tentativo - riuscito ed estremo
- di risultare cinico e distaccato nei confronti del suo personaggio, Peano
restituisce pienamente l’umanità che
ci contraddistingue quando siamo posti di fronte a quel dolore che tutto
fagocita.
Un’operazione resa possibile
grazie alla straordinaria precisione nell’uso della lingua. Ogni singola parola
è scelta con cura, quasi ossessivamente ponderata e infine incastonata nel
testo con una scrupolosità da artigiano,
di chi, per anni, facendo l’editor, si è preso cura delle storie altrui.
Da editor a scrittore. Cosa l’ha spinta a compiere questo passaggio?
Marco Peano. Foto © minimum fax
Da editor a scrittore. Cosa l’ha spinta a compiere questo passaggio?
Far nascere i romanzi degli altri e farne nascere uno proprio sono due attività che hanno entrambe a che fare con il prendersi cura delle storie, con l’attenzione, la ricerca e anche l’ossessione per le parole.
“L’invenzione della madre” è un romanzo che scaturisce
da un’esperienza autobiografica che ho rielaborato letterariamente, un romanzo
che ha avuto una lunghissima gestazione. Mia madre è morta nel gennaio del
2006, esattamente come la madre di Mattia – le date coincidono. Ho iniziato a
scrivere questo romanzo circa un anno dopo, nel gennaio 2007. La scrittura era
dolorosa, attraversavo dei periodi in cui stavo molto male.
Facendo l’editor, spesso mi era impossibile tenere
i due percorsi contemporaneamente. Non riuscivo a lavorare sulle storie degli altri
e poi sulla mia. Se, tutto il giorno, stai frequentando la voce di uno
scrittore e stai facendo attenzione alla sua storia, quando torni a casa la
sera non hai – o almeno non avevo io – le forze necessarie per scrivere
qualcosa di personale. Questo ha significato fare una scelta precisa: scrivere
per sette anni, ma solo in alcuni mesi specifici (agosto e dicembre). Tutte le
vacanze estive e quelle di Natale degli ultimi sette anni della mia vita sono
state a contatto con questa storia. Nel corso dell’anno, invece, non scrivevo:
raccoglievo informazioni, pensavo, leggevo. Un terzo binario rispetto al lavoro
dell’editor e quello della scrittura era infatti quello della ricerca: in quei
mesi cercavo di leggere tutto quello che poteva servirmi per raccontare questa
storia. E il materiale era sterminato perché un tema come la morte di un
genitore, l’elaborazione del lutto, la difficoltà nell’accettare il cambiamento
permea la storia della letteratura quasi in modo totale.
Per molti anni ho gelosamente tenuto lontano questo
testo da sguardi estranei. Non ero sicuro di me e, avendo a che fare con la
narrativa per motivi professionali, ero molto esigente. Rileggevo e non ero
soddisfatto. All’inizio non pensavo neanche che potesse diventare un romanzo.
Poi mi sono reso conto che c’era bisogno di un occhio esterno. Anche se faccio
questo lavoro da diversi anni, è stato necessario confrontarmi con un editor
perché non vedevo più le cose. Ero talmente immerso nel testo che la distanza
non c’era più. Come quando un obiettivo di una videocamera si avvicina troppo
all’oggetto e sfuoca tutto il resto. C’era bisogno di prendere le distanze.
Mattia è l’unico personaggio con un nome proprio
presente nel testo. Perché questa scelta? Per dare un respiro più universale
alla storia che stava scrivendo o per concentrarsi ulteriormente solo sullo
sguardo del protagonista?
Credo entrambe le cose. È una storia molto privata,
ma con un contorno decisamente universale. La malattia, e tanto più la morte di
un genitore, riguarda – più o meno da vicino – tutti. Uno dei motivi per cui ho
scelto di avere soltanto il nome del protagonista come perno centrale è perché
quando noi soffriamo, quando il dolore – non necessariamente legato alla
malattia – ci attraversa in maniera profonda, si radica in noi. Il mondo
intorno allora è quasi come se scomparisse. Tutti quanti diventano figure di
contorno: il padre, la madre, la fidanzata, la nonna, anche il gatto non hanno
nome in questo romanzo. Perché l’egoismo che suscita un dolore profondo porta a
cancellare tutto il resto. A fare diventare tutto brusio di sottofondo. Quando
soffriamo diventiamo persone insopportabili perché ci concentriamo solo su noi
stessi. Mi piace la tua chiave di lettura dell’universalità del progetto, però
l’esigenza era anche quella di trovare la distanza giusta per poter raccontare
questa storia.
Il libro si intitola “L’invenzione della madre”. Da
un lato, l’ho scelto perché mi piacciono moltissimo i titoli che hanno una
parvenza di saggio, ma forme narrative, come “La manutenzione degli affetti” di
Antonio Pascale. Ragionando sui vari titoli, avevo preso in considerazione
persino “Guida alla morte in provincia”, che è diventato un titoletto nella
prima parte delle tre di cui il romanzo è strutturato. Alla fine, la scelta è
ricaduta su “L’invenzione della madre”. Mi piaceva la valenza oggettiva e
soggettiva del genitivo nel titolo. Se, da un lato, è vero che a causa
dell’assenza di un genitore – della madre – un figlio è costretto a
inventarsela, a sua volta, il figlio è l’invenzione di sua madre. Inoltre, il
verbo invenire, cercare, è qualcosa che sembrava tracciare un percorso
all’interno della narrazione. Mattia si prende cura della madre, decide di
stare fermo lì con lei, come spesso è stato fermo nella sua vita, perché forse
un po’ fa diventare la malattia un alibi. Un alibi che gli permette di rimanere
cristallizzato in quella fase che potremmo definire come post-adolescenza. Ha
ventisei anni, un’età in cui si è a metà strada tra il non essere più un
ragazzo e il non essere ancora uomo. Questa situazione crea quasi un
cortocircuito perché Mattia prende il ruolo di sua madre e diventa suo
genitore, ma prende anche il ruolo di suo padre, diventando una sorta di sposo
della madre.
Il dolore che cade addosso al protagonista lo
costringe a fermarsi per provare a decifrarlo. Il tempo del lutto è qualcosa di
molto soggettivo. Da qualche parte ho letto che in alcuni uffici pubblici, si
cercava di stabilire quanto un dipendente dovesse stare a casa in seguito a un
lutto. Tre settimane bastano? Tre mesi sono sufficienti?
Per quanto riguarda Mattia, il libro si interrompe
poco prima dell’anniversario della morte della madre. Non sappiamo esattamente
se lui riuscirà a seguire il suo sogno, ad abbracciare il futuro. Non sappiamo
se davvero crescerà, quanto e in che modo. C’è da dire che il percorso che l’ha
condotto fin lì gli ha permesso di portare dentro di sé un bagaglio di
esperienze che ci auguriamo lo facciano diventare finalmente adulto e, magari,
a sua volta, genitore.
Diverse parti del testo sono scritte tra parentesi.
Perché ha scelto di usare questo espediente stilistico?
Avrei due risposte possibili a questa domanda. La
prima è che il segno grafico della parentesi sembra quasi una pancia. Una
pancia che contiene tante parole. Tutto ciò che è compreso tra due parentesi,
metaforicamente può essere considerato come se fosse una gravidanza. E, dal
momento che, il tema del materno è profondamente innervato nel romanzo, sarebbe
stato interessante provare a mettere tante gravidanze nel testo. Questa
riflessione, però, è avvenuta solo a posteriori.
In realtà, all’origine di questo espediente, oltre
al fatto di piacermi molto la parentesi come segno di punteggiatura, c’era la
possibilità di fare una scelta particolare. A scuola ci insegnano che quello
che è tra parentesi è meno importante, è una cosa che si può anche omettere,
che si può non raccontare. Se metti una cosa tra parentesi e, dentro, inserisci
qualcosa di più significativo, è come se stessi facendo brillare di luce
diversa quel qualcosa e costruissi una narrazione sotterranea che, in realtà,
spesso è quasi più importante di quella principale. Se tu provassi a togliere
tutte le parti che non sono tra parentesi nel libro e leggessi solo le parti
tra parentesi, la storia funzionerebbe. Ovviamente con meno riferimenti, in
modo diverso, ma funzionerebbe. Se tu facessi l’esperimento contrario,
togliessi tutte le parti che sono tra parentesi tenendo solo le altre, il testo
sarebbe molto più lineare e scenderebbe meno in profondità. La parentesi è un
modo pudico per dire cose importanti, è quasi come se, anziché urlarle, le
sussurrassi perché sono più preziose.
L’invenzione della madre è costellato
di richiami al mondo del cinema. In altre interviste ha sottolineato come il
dare a Mattia questa passione sia stato un espediente per farlo allontanare dal
suo mondo, dal mondo delle parole. Alla fine del romanzo però, è Mattia stesso
a constatarne l’importanza, quasi si volesse ricongiungere a lei, con una frase
pregna di significato: la realtà non sta nelle
immagini, come ha sempre creduto, ma nelle parole.
Volendo ragionare sui meccanismi narrativi, ho
deciso di dare a Mattia questa passione che, in parte, è anche mia. Un
espediente che mi ha permesso di fare dei riferimenti a vicende altrui: i film
sono dei contenitori di tempo, di vite, di esperienze e di affetti. La storia
del cinema è per Mattia un’occasione per allargare questo tempo che
inesorabilmente continua a scorrere e che porterà verso l’esito tragico della
perdita di sua madre. Nell’anno successivo alla morte della madre rimangono
solo gli oggetti a parlare, o peggio le persone che, intollerabilmente,
continuano a esistere. Mattia ragiona sull’uso che facciamo dei ricordi, e su
come usiamo le parole. Perché se da un lato è vero che le immagini sembrano
essere qualcosa che immortala, che eternalizza, che fa diventare per sempre
vive nella memoria le persone che non ci sono più; dall’altro Mattia capisce
che le parole sono tutto quello che gli arriva da sua madre. Del resto, “mamma”
è spesso la prima emissione vocale che, nella lallazione, i bambini imparano a
dire perché è un suono molto facile.
Per quanto riguarda me, non avrei mai voluto fare
un finale in cui Mattia si mette a scrivere un libro ed è il romanzo che tutti
noi stiamo leggendo. Essendomi trovato anche io, come Marco Peano,
cristallizzato a lungo in un periodo post-adolescenziale, ho capito che dovevo
ricorrere a quello che sapevo fare, a quello che amavo fare: maneggiare le
parole e prendere il coraggio necessario per dipanare questa storia. Era un
modo per dire che Mattia, alla fine del romanzo, non sta iniziando a scrivere
il libro ma ha finito di scrivere quello stesso testo e si ricongiunge, in
qualche modo, a me. Lui, in quell’anno che ho raccontato, faceva un lavoro di
cui non gli interessava molto. Io invece, mentre mia madre stava morendo, stavo
facendo un lavoro che già amavo. Avevo il contatto con le parole, ma mi
sembrava che non fossero sufficienti per aiutarmi, non erano il balsamo che
speravo. Invece, dopo, ho capito che l’aver continuato a fare il lavoro che
faccio, anche durante la malattia di mia madre, in qualche modo, mi ha salvato.
Marco Peano. Foto ©
Stefano Stocco
Dopo un romanzo così importante e con una forte
componente autobiografica, sarà possibile scrivere e dedicarsi a un'altra
storia, a un nuovo libro?
Questo è il libro che uno vorrebbe non mai aver
scritto. Avrei preferito che il mio romanzo d’esordio parlasse d’altro. Invece
parla di questo e sono comunque contento che sia così. La libertà che ti dà il
primo libro è qualcosa di potentissimo, corroborante. Non saprei darti una
risposta precisa. Le storie abitano in me da talmente tanto tempo…
Non avevo scritto un romanzo prima di questo. Avevo
scritto dei racconti qua e là. Avevo fatto delle prove. Per la mia formazione
professionale, mi è capitato di scrivere, e so che mi capiterà ancora. Non sono
sicuro di aver esaurito l’argomento. Erano talmente tante le cose di cui parlare
che le ho dovute concentrare. La prima versione di questo libro era di quasi
600 pagine. Era un mostro dal quale ho tolto, prima da solo, poi con i miei
editor, parte del materiale che era di troppo. Ma tutti questi piccoli semi che
sono stati gettati continuano a lavorarmi dentro. Mi piacerebbe anche provare a
stare da tutt’altra parte, fare qualcosa di intentato. Quello che ha di bello
la scrittura è che non raggiungi mai un traguardo. Sei sempre in cammino.
Intervista di Francesca Marson
La rileggo dopo aver finito il libro, così ho tutta la scoperta della pagina.
RispondiEliminaComunque, sei sempre più brava!
Grazie Marina! <3
EliminaCom'è andata la lettura? Aspetto la tua recensione!
Domande e risposte davvero interessanti!
RispondiEliminaL' immagine delle due parentesi come tante gravidanze mi è sembrata un pò forzata, ma d' altro canto l' autore stesso la ha definita come una riflessione a posteriori secondaria al suo vissuto. Per il resto, argomentazioni molto convincenti!
A.
Grazie del commento Ale!
EliminaL'uso delle parentesi é una peculiarità che rende il romanzo ancora più interessante. Mi aveva colpito subito: una domanda era d'obbligo :)